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Victim blaming e riconoscimento del trauma.

  • Immagine del redattore: Mariella Sica - Filippo Franchi
    Mariella Sica - Filippo Franchi
  • 5 mag 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

“Per sostenere l’autenticità di un evento traumatico è fondamentale un contesto sociale che protegga l’incolumità della vittima e unisca quest’ultima al testimone in una reciproca alleanza. Per la vittima, questo contesto sociale è dato dalle relazioni con amici e familiari. Per la società nel suo insieme, il contesto viene fornito da movimenti politici che danno voce a chi è stato ridotto al silenzio.”


Troviamo questa affermazione a poche pagine dall’inizio di “Guarire dal Trauma” di Judith Lewis Herman edito nel 1992. Il fatto che l’autrice parli di riconoscimento sociale dell’evento traumatico prima ancora di farne una disamina clinica, è un segnale importante: se non c’è una valorizzazione di quel trauma da parte della collettività, non ci può essere neppure una vera e propria guarigione, in quanto, la vittima, verrà rigettata nell’antro doloroso degli eventi ogni qual volta sarà in contatto con la propria comunità che non le riconoscerà i danni subiti dall’accaduto. A dare valore a questo pensiero bisogna risalire alla storia della psicanalisi, al rigetto da parte di Freud della teoria per la quale l’isteria femminile dipendesse dalla violenza sessuale subita: non era ipotizzabile che tutte quelle donne, che Charcot prima e lui poi avevano studiato, fossero state oggetto di violenza sessuale, non perché non fosse realmente possibile ma non sembrava neppure pensabile che gli uomini di Parigi fossero così abietti. La spiegazione doveva essere nella libido delle donne. Neppure di fronte a fatti conclamati Freud credette alla violenza maschile come scatenante la reazione isterica ma doveva esserci qualcosa di non chiaro nell’eccitazione erotica femminile. Negando la violenza si negava quindi il valore di quel trauma, gli si dava una spiegazione di comodo che assolveva gli uomini e ribadiva la fragilità femminile.


Volendo portare al nostro presente questo ragionamento possiamo utilizzare una frase comunemente sentita in ogni episodio di stupro: “se l’è cercata”. L’idea che una donna possa aver volutamente istigato uno o più uomini a violentarla non valida l’episodio come totalmente brutale ma l’ipotizzato concorso di colpa ne riduce la portata violenta e di conseguenza non le si riconoscerà a pieno il trauma subito.


Nelle ultime settimane è rimbalzato sui media un video in cui Beppe Grillo difende il figlio Ciro, accusato con altri di aver violentato una diciannovenne; derubrica i ragazzi al ruolo di “coglioni” e mette in dubbio il racconto della ragazza perché dai fatti alla denuncia sono passati otto giorni. Il pensiero che Beppe Grillo ha espresso (dai commenti social non è solo lui a pensarla così) getta in pasto all’opinione pubblica un cliché trito e ritrito che vuole la ragazza consapevole del pericolo e per questo colpevole di ciò che è capitato; il retropensiero delle affermazioni dell’ex comico è questo: se fosse stata veramente una violenza lei avrebbe denunciato subito. “Se l’è cercata”, o per come era vestita o per il fatto di aver accettato la compagnia di alcuni ragazzi o perché aveva bevuto, è il leitmotiv di ogni episodio di violenza sessuale ai danni di una donna. Prima di lui il caso di Alberto Genovese: anche in quel caso la giovane vittima, per il fatto di aver partecipato alle feste, secondo la vulgata "se l'è cercata" . E’ di questi giorni poi la notizia di un nuovo stupro di gruppo, dove il padre della ragazza difende i giovani che l’hanno violentata perché lei era ubriaca: forse è stato ricattato, o forse no. Resta il fatto che a quel trauma, come a quello delle vittime di Ciro Grillo di Alberto Genovese e di molti altri uomini, viene negata la validità.

Della vicenda Grillo fa pensare il fatto che, in un contesto privato, gestualità e comportamenti maschilisti siano da considerare "goliardate" e che anche un ipotetico iniziale consenso giustifichi qualsiasi condotta; ciò equivale a riprodurre/riproporre una visione patriarcale e maschilista delle relazioni che vogliono la donna a disposizione e vedono quella disponibilità nella lunghezza di una gonna o da altri atteggiamenti di libertà che evidentemente, ancora oggi, per le donne risultano ancora “sconvenienti” quindi suscettibili di interpretazione sfavorevole.

Il consenso all'interno di uno scambio relazionale, può essere revocato in qualsiasi momento se le condizioni si modificano e farlo è un diritto che, se ascoltato, ridimensiona le gerarchie di potere e controllo.

Un adulto con una visibilità sociale, una notorietà pubblica, che, nella veste di genitore sofferente, esprima opinioni personali su eventi personali, ha una maggiore responsabilità rispetto alle modalità, ai contenuti e ai tempi della condivisione. Nello specifico il video postato da Beppe Grillo risulta uno sfogo inappropriato anche solo per il fatto che la vicenda giudiziaria non è ancora conclusa. Ma soprattutto, insinuando quel “se l’è cercata” toglie validità alla violenza e al suo trauma.




 
 
 

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